La battaglia di Eraclea (o di Heraclea) si svolse nell'anno 280 a.C. tra le truppe della Repubblica romana guidate dal console Publio Valerio Levino e quelle della coalizione greca che univa Epiro, Taras (Taranto), Thurii, Metaponto ed Eraclea, sotto il comando del re Pirro d'Epiro.
Teatro dello scontro fu il territorio dominato dalla città di Eraclea, presso l'odierna Policoro. Come narra Plutarco, Pirro si accampò nella pianura tra Pandosia ed Eraclea, di fronte al fiume Siris (l'attuale Sinni). Tuttavia, poiché Tito Livio e Plinio il Vecchio precisano che Pirro era sì accampato vicino alla città, ma all'esterno dei suoi confini territoriali, si ritiene, con un certo grado di probabilità, che il suo campo fosse a circa 11 chilometri dal mar Ionio e a 6,5 da Eraclea, nell'attuale territorio di Tursi (nei pressi della frazione Anglona), laddove un tempo sorgevano le antiche mura della città di Pandosia.
All'inizio del III secolo a.C., Roma stava cercando di espandere la sua influenza sulla penisola italica e mirava alla conquista delle polis magnogreche. Pirro accorse in difesa di Taranto con 25.500 uomini e 20 elefanti da guerra e furono proprio i pachidermi, animali sconosciuti ai Romani, a rivelarsi determinanti ai fini della vittoria. La battaglia fu il primo scontro tra il mondo ellenistico e quello romano. Dal punto di vista politico, la vittoria greco-epirota si rivelò nell'immediato proficua per la coalizione, poiché dopo questo scontro molte polis della Magna Grecia chiesero protezione al re epirota; questo evento, tuttavia, non risultò comunque decisivo da un punto di vista militare, poiché molte città campane e latine rimasero fedeli alla Repubblica romana.
Gli opliti, disposti in formazione a falange, giunti in prossimità del nemico effettuarono ben sette cariche nel tentativo di sopraffare i legionari romani. Riuscirono a sfondare le prime linee nemiche ma non poterono avanzare ulteriormente a meno di non rompere la propria formazione. Una simile eventualità avrebbe esposto gli opliti ai colpi dei Romani, per cui furono costretti a restare sulla loro posizione.
Lo scambio dei panni e delle armi fu essenziale per salvaguardare la vita del re. I Romani continuarono a prendere di mira colui che portava le armi reali finché un cavaliere di nome Destro assalì e uccise Megacle; lo spogliò quindi delle vesti reali e corse verso il console Levino, annunciando a tutti di aver ucciso Pirro. Dopo tale notizia i Romani, galvanizzati dalla morte del re epirota, sferrarono un deciso contrattacco, mentre i Greci sbigottiti cominciarono a perdersi d'animo. Pirro, avendo inteso il fatto, si mise a correre per il campo e a capo scoperto si fece riconoscere dai suoi soldati. Per riprendere in mano le sorti della battaglia, mandò in campo gli elefanti da guerra che, con la loro grossa stazza, crearono subito scompiglio tra le file romane. Inoltre, questi animali portavano in groppa una torretta con soldati che potevano a loro volta colpire dall'alto i nemici. I Romani non avevano mai visto questi animali prima di allora e li scambiarono per i grandi buoi tipici del posto; per questo furono chiamati "buoi lucani". Gli elefanti travolsero le legioni romane creando panico tra gli uomini e i cavalli, anche a causa dell'enorme massa, bruttezza e odore, e li terrorizzarono con il loro barrito.
Paolo Orosio racconta, forse confondendo un episodio raccontato da Floro e attribuito da quest'ultimo alla successiva battaglia di Ascoli Satriano, che durante lo scontro il primo astato della IV legione, Gaio Minucio (o Numicio), riuscì a ferire alla proboscide un pachiderma; questi, inferocito e fuori controllo, si rigirò contro le truppe greco-epirote causando numerose vittime.
Alla vista di questo disordine Pirro ordinò alla cavalleria tessala di attaccare, sbaragliando definitivamente la fanteria romana ormai in ritirata. Ciò permise ai Greci di conquistare il controllo del campo di battaglia e di entrare nell'accampamento romano. Nelle battaglie dell'antichità, la presa dell'accampamento nemico rappresentava una grande disfatta per l'avversario; si suppone inoltre che i Romani abbiano abbandonato nell'accampamento materiali da guerra e armi: i legionari superstiti, forse seguendo la via Nerulo-Potentia-Grumentum, si ritirarono a Venosa probabilmente dopo essersi liberati del proprio equipaggiamento. Fu tuttavia soprattutto grazie al sopraggiungere della notte che i Romani e il console Levino poterono salvarsi da una carneficina ancor peggiore.
Nel riportare le perdite subite dagli schieramenti, Plutarco cita due fonti molto divergenti tra loro: lo storico greco Geronimo di Cardia, che registra 7.000 vittime tra le file romane e 4.000 tra quelle greche; Dionigi di Alicarnasso, secondo il quale, invece, le perdite furono molto più elevate: 15.000 morti tra i Romani e 13.000 tra le truppe di Pirro.
Dopo la battaglia, sembrò concretizzarsi quell'intesa tra Greci e Italici in funzione antiromana, che parte dell'aristocrazia tarentina si augurava da tempo. Rinforzi lucani e sannitici si unirono all'esercito di Pirro e anche i Bruzi si ribellarono. Le città greche d'Italia si allearono con il sovrano epirota: Locri scacciò la guarnigione romana, imitata poco dopo da Crotone. A Reggio Calabria, ultima posizione della costa ionica ancora controllata da Roma, il pretore campano Decio Vibullio (o Giubellio), che comandava la guarnigione cittadina, massacrò una parte degli abitanti, cacciò i restanti e si proclamò reggente della città, ribellandosi all'autorità di Roma . Più tardi fu punito da Gaio Fabricio Luscino.
Pirro aveva appreso che il console Levino sostava a Venosa, impegnato ad assicurare le cure ai feriti e a riorganizzare l'esercito in attesa di rinforzi mentre il console Coruncanio era impegnato in Etruria. Pertanto avanzò verso Roma con l'intento di spingere i suoi alleati all'aperta ribellione, chiedendo per Sanniti, Lucani, Dauni e Bruzi la restituzione dei territori perduti in guerra, oltre a provare a sorreggere gli Etruschi contro l'esercito di Coruncanio.
Πηγή: http://it.m.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Eraclea#Fasi_del_conflitto
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